Amare l’Italia significa rifarla
Di Carlo Pelanda (26-7-2009)
Dopo quasi 150 anni l’Italia non ha ancora un modello politico ed economico nazionale che si dimostri capace di armonizzare l’enorme varietà antropologica e di situazioni geografiche presenti nel suo territorio favorendo lo sviluppo di ciascuna. Le questioni sia meridionale (sottosviluppo e disordine) sia settentrionale (vincoli e fisco eccessivi che comprimono l’impresa) dipendono dal fatto che il modello nazionale è inadeguato. Se vero, allora la soluzione è nazionale e non di rappresentanza territoriale. Analizziamo.
I diversi
Regni italiani, dopo lo splendore medievale, iniziano la decadenza economica
nel 1600 per la migrazione del centro del mercato mondiale dal Mediterraneo
all’Atlantico. Ciò serve a ricordare che il nostro presente è ancora segnato da
una crisi plurisecolare che ha reso deboli mercato e
società. Il modello applicato dal Piemonte dopo la conquista del Sud fu
un’imitazione di quello centralista
francese. Non funzionò sia per la poca capacità di armonizzare georealtà diverse sia perchè non perseguì una ricapitalizzazione del sistema. Anzi, il Sud agricolo andò
in crisi per l’effetto deflazionistico dell’unione monetaria nazionale, gestita
malamente. Il modello piemontese lasciò libero il mercato, ma questo non era abbastanza forte per
“girare” a causa della lunga decadenza detta sopra. Il fascismo cercò, per
progetto di potenza, di modernizzare e capitalizzare l’Italia dando alla
politica la missione di riempire la mancanza di forze di
mercato. Così la politica occupò lo Stato e lo rese attore economico. Nel
dopoguerra tale modello non cambiò pur cambiando i
partiti che lo gestivano. In sintesi: (a) la crisi plurisecolare ha reso deboli
società e mercato; (b) la politica ha riempito il vuoto diventando attore
economico diretto; (c) tale modello ora impedisce il buon funzionamento del
mercato. A Nord e a Sud. Dai tempi del fascismo l’Italia non si è mai liberata
dallo statalismo che, in essenza, distorce il giusto rapporto tra Stato e
mercato. Il secondo si sviluppa se lo Stato fornisce garanzie ed il mercato
ricchezza, senza confusione tra le due missioni. Ma lo statalismo predica che
lo Stato fornisca ricchezza ed il mercato garanzie.
Per questo il Nord industriale è rimasto vincolato da un modello nazionale che
lo carica di troppi pesi fiscali e vincoli all’operatività. Infatti
è andato in crisi competitiva al primo scoppio della concorrenza globale negli
anni ’80. L’interventismo politico in economia ha prodotto danni peggiori al
Sud. Enormi investimenti per decenni sono stati impiegati non per creare la
forza autonoma del mercato, ma per rafforzare il potere dell’uno o altro
feudatario o partito. Non è vero che nel Sud il mercato non ci sia per
incompetenza antropologica o svantaggio geografico. Non c’è, oltre che per
crisi storica, per la pervasività della politica che
indirizza malamente i capitali. E c’è disordine perché
la società dipendente dalla politica si sente affittuaria e non proprietaria, cioè non responsabile. Nel Nord il mercato c’è, ma è
oppresso dal medesimo modello nazionale sbagliato che impedisce lo sviluppo al
Sud. Soluzioni?